Se avete trovato un dipinto antico in casa, nascosto da tempo in soffita o attaccato in un angolo buio della casa perchè troppo scuro per poter essere esposto adeguatamente, potrebbe essere arrivato il momento di osservarlo e pensare di farlo restaurare. In tanti anni di lavoro mi sono imbattuta in un'infinità di oggetti anche di pregio che i proprietari conservavano in casa senza rendersi conto del loro valore.
Il restauro è il momento in cui si decide di aumentare gli anni di vita ad un'opera, eliminando danni dovuti al passare del tempo per tornare ad apprezzare le sue caratteristiche artistiche nella loro totale completezza.
Spesso ho sentito clienti che avevano tentato di provvedere personalmente alla pulitura di superifici dipinte con i tradizionali metodi del "sentito dire" che vanno dalla cipolla alla patata sbucciata ed il web è ancora inondato di articoli che spiegano come si fa... ecco, meglio di no. Perchè, ad esempio, la cipolla rilascia ammoniaca e acidi solfenici che potrebbero danneggiare alcuni pigmenti se rimane sul dipinto dopo essere stata strofinata, ma soprattutto non elimina lo strato di vernici ossidate.
L'operazione della pulitura (e non pulizia come erroneamente qualche volta si dice) è infatti apparentemente la fase più semplice tra le varie operazioni del restauro di un dipinto, che sia tavola, tela o pittura murale, ma è da considerarsi il momento in cui si procede senza possibilità di reversibilità, cioè non si torna indietro. Qualsiasi sostanza utilizzata va conosciuta dal suo punto di vista chimico in modo da scongiurare danni irreparabili. Il suo scopo è esclusivamente eliminare il velo bruno che offusca i colori per tornare a vedere le cromie originali quasi come al momento della loro stesura da parte dell'artista. Infatti, fino ad oggi, molti autori ancora utilizzano, una volta completato e asciugato bene il loro dipinto ad olio, della vernice finale trasparente per proteggere i colori. Questo leggero film col passare dei decenni reagisce con l'ossigeno e gli agenti presenti nell'aria ossidandosi, da qui l'ingiallimento progressivo del dipinto che va ad offuscare in modo uniforme tutta la superficie. Ciò che alcuni definiscono "aspetto antico" è dunque la vernice finale ingiallita. La pulitura serve a toglierla per poi sostituirla con una nuova stesura trasparente, che riporti i colori alla loro tonalità originale.
Qualche volta alcuni dipinti sono stati già sottoposti a restauri in epoche passate e sicuramente si trattava di pittori allo sbaraglio che utilizzavano materiali non idonei per risolvere cadute di colore o altri danni presenti sull'opera. In quel caso l'occhio esperto troverà il solvente adatto per eliminare eventuali ridipinture moderne e altri tipi di sostanze sovrammesse quali colle, cere, ecc.
Detto questo si comprende ancora di più perchè non è proprio consigliato avventurarsi nella pulitura di un proprio quadro... proprio per non rischiare di combinare pasticci irreversibili.
Nel video però si può vedere quello che è di solito nascosto nelle mura di una bottega di restauro. La prova che permetterà di comprendere il tipo di solvente adatto da utilizzare per procedere alla fase della pulitura e liberare il dipinto dello strato scuro che lo appesantisce. In questo caso il dipinto, tenuto per anni in soffitta dal proprietario, ha rivelato di essere firmato e datato, elementi importantissimi per l'eventuale stima del suo valore.
Prossimamente vi mostrerò la pulitura completa di questo dipinto in cui sto lavorando in questi giorni.
Che meraviglia le rivelazioni delle ultime scoperte a Pompei!
In una strada rimasta sepolta dal 79 d.C sotto un enorme strato di lapilli e pomice, torna alla luce un Termopolium con le anfore e le ciotole per la conservazione dei cibi. Un fast food del tempo che, come insegne per indicare la tipologia della merce venduta, aveva sotto il bancone delle pitture realizzate a colori vivissimi per invitare i passanti ad avvicinarsi e acquistare un pasto cucinato o semplicemente del vino. Un gallo, delle oche e il negozio stesso immortalato con i prodotti in vendita, risultano oggi perfettamente conservati, a parte i traumi subiti dall'eruzione, come se terminati da pochi mesi.
Le pennellate fanno immaginare la tipologia dei pennelli utilizzati e soprattutto la grande maestria che gli artisti del tempo erano soliti usare quando quotidianamente andavano a decorare domus, taberne e altri edifici. Tocchi di colore decisi e veloci danno forma a figure e paesaggi, probabilmente senza neanche disegni preparatori, per andare a decorare metri e metri quadrati di una delle città più uniche della storia.
Questa velocità, sicurezza ma anche precisione e cura nella scelta dei colori doveva necessariamente derivare da una buona dose di esperienza, oltre che da un ottimo bagaglio di conoscenze riguardo alla tecnica utilizzata.
Trattato in un precedente articolo, l'affresco diventa qui un momento di "sacro rapimento" per i cultori di questa incredibile tecnica (me per prima) che rimangono scorcertati per tale bravura e perfezione.
La fortuna è quella di poter leggere ancora Vitruvio, il più importante architetto della storia, per comprendere le competenze che, non solo in pittura, esistevano in tutti i campi dell'arte romana. Nel 27 a.C egli descrive accuratamente i passaggi della preparazione del muro in cui dovevano sovrapporsi ben 6 strati di intonaco in modo da ottenere quelle superfici liscissime e compatte che, una volta dipinte, sembrano di marmo.
Nel VII° libro del De Architettura illustra la scelta dei primi tre strati che dovevano essere più grossolani, solo di sabbia e calce, elemento questo fondamentale nella realizzazione dell'affresco per il quale rimando all'articolo di approfondimento. Nei luoghi umidi si prevedeva addiruttura l'accortezza di sostituire la sabbia con la pozzolana o il coccio pesto, cariche inerti con proprietà idrauliche, cioè resistenti all'acqua.
Gli ultimi tre strati dovevano essere invece più raffinati e per questo si univa solamente la polvere di marmo alla calce. Quando l'ultima stesura era appena stata sovrapposta alle altre già asciutte, il pittore doveva iniziare a dipingere su questa superficie umida, da qui pittura a fresco! Ma rispetto alla sublime tecnica ancora mirabilmente utilizzata fino a tutto il Rinascimento e oltre, qui troviamo numerose accortezze e fasi in aggiunta che fanno dell'affresco romano un unicum. Sempre Vitruvio cita le politiones (puliture), cioè azioni meccaniche che avevano lo scopo di lucidare i colori. Da qui deduciamo la volontà di imitare le lastre di marmo che i più abbienti potevano destinare alle pareti delle loro lussuose dimore proprio attraverso una pittura compatta e perfettamente liscia, come evidenziano ancora i recenti ritrovamenti.
Ma come avveniva tutto questo su una superficie ancora umida? Si utilizzava evidentemente il liaculum, uno strumento duro, forse una sorta di coltello in legno o metallo che veniva energicamente premuto sulle meravigliose basi monocome in giallo, verde, azzurro, rosso o nero tipiche dei motivi pittorici del tempo per compattare uniformemente la superficie ed il colore, fino a smaterializzare le pennellate e raggiungere quei fondi omogenei e perfetti che tutti conosciamo. Qui poi la bravura dell'artista procedeva nel far apparire con veloci e sicuri colpi di pennello le meravigliose immagini di animali, divinità, paesaggi e quantaltro il ricchissimo repertorio del tempo offriva. Il lavoro del liaculum permetteva inoltre la fusione degli attacchi tra le giornate di lavoro, che invece sono di solito distinguibili negli affreschi più moderni.
Risultato: pareti uniformi e lucenti, ricche di colori e immagini di ogni foggia che dovevano unirsi alla ricchezza decorativa dei mosaici pavimentali.
Da quanto detto traspare quindi nelle modalità dell'uso dell'affresco, che di per sè è da considerarsi la tecnica pittorica più duratura della storia, delle peculiarità ben precise che sono presenti non soltanto a Pompei ma nella stragrande maggioranza dei dipinti romani.
Una variante standardizzata e codificata a qual tempo, assolutamente vincente nei suoi risultati che è stata ben indagata proprio grazie alla riscoperta della città simbolo sepolta per secoli all'ombra del Vesuvio in cui ancora, metri e metri quadrati di pittura stanno attendendo di rivedere la luce.
Qui non si può parlare assolutamente di encausto, anche se la letteratura è ricca di informazioni ancora contrastanti ed errate a tal proposito. Sarà mia cura dedicare ad esso un articolo specifico per rivelare quanto l'occhio del restauratore riesca a vedere oltre tutti gli altri.
Carissimi, Buon Natale! Ci auguriamo
che nonostante le avversità riusciate tutti a trascorrere queste giornate in
tranquillità e serenità.
In casa Cupiello in questi giorni
riecheggerebbe la celebre domanda “Te piace 'o Presepe?” così chiedo anche a
voi…Vi piace il Presepe? In quanti di voi si dilettano a crearlo? Preferite
l’essenzialità o adorate raccontare storie con i vari personaggi? Alzi la mano
chi si diverte a creare paesaggi con muschio, farina effetto neve e ruscelli fantasiosi!
Sarebbe bello chiacchierare insieme e scambiarsi consigli e suggerimenti in
merito.
Il termine “Presepe” deriva dalla
parola latina Praesepe (da prae/saepire, ‘cingere con siepi’), ed
indica un recinto per animali chiuso con siepi, e, in senso traslato, la
mangiatoia. Per raccontare la storia del Presepe infatti bisogna partire proprio
dal culto dei sanctuaria della Natività e da una basilica romana: Santa Maria Maggiore in Roma è detta appunto ad Praesepe in quanto ha iniziato
a custodire, presumibilmente già dal VII secolo, memorie della nascita di Cristo,
ovvero i resti della sacra culla (cunabulum Domini) e i frammenti della
Grotta di Betlemme (de praesepio Domini).
Oggi queste
reliquie sono conservate in un prezioso reliquiario a forma di culla collocato
al di sotto dell’altare della basilica mentre in origine erano custodite in una
cappellina in muratura (circa 2,50 x 3,85 metri) annessa al muro settentrionale
esterno. Un piccolo edificio che tuttavia rappresentava un vero tesoro
devozionale per la basilica e che la munificenza pontificia non esitava a valorizzare
e preservare.
Un evento che
segna la svolta per il culto del presepe è sicuramente rappresentato dalla
rievocazione della Natività a Greccio (Rieti) ad opera di San Francesco d’Assisi
nella notte di Natale del 1223. A questa sacra rappresentazione infatti sembra
avesse assistito anche il futuro papa Niccolò IV (1288-1292), primo pontefice
francescano, il quale una volta giunto a Roma decise di restaurare la basilica
di Santa Maria Maggiore e di ricreare in scultura la magia del Presepe vivente
di Greccio.
La “ristrutturazione” dell’antica
cappellina del Presepe venne affidata intorno al 1291 ad Arnolfo di Cambio,
artista senese nato a Colle Val d’Elsa che oggi possiamo simpaticamente
considerare come il primo mastro presepaio della storia. Arnolfo infatti scolpì
diversi personaggi in pietra rappresentando in una unica scena la Nascita di
Cristo e l’Adorazione dei Magi.
Oggi di questa cappella non
restano che pochi frammenti e alcune sculture: il paliotto dell’altare, la
ruota porfiretica del pavimento, le figure di San Giuseppe, i tre Magi, il bue
e l’asino e due profeti con cartiglio.
La figura di San Giuseppe,
ricordato dai vangeli di Luca e di Matteo, è rappresentato da Arnolfo come un
uomo anziano e barbuto, vestito di tunica e mantello, che si appoggia
pensieroso al suo bastone: cogliamo così la sua umana delicatezza e fragilità nell’accettare
di diventare il padre del figlio di Dio.
La presenza del bue e dell’asino,
completamente taciuta dai vangeli canonici, viene menzionata nel vangelo
apocrifo dello Pseudo-Matteo: <<Tre giorni dopo la nascita del Signore,
Maria uscì dalla grotta e, entrata in una stalla, depose il Bambino nella
mangiatoia; e il bue e l’asino lo adorarono. Si compì allora quello che era stato
annunciato per bocca del profeta Isaia: <<il bue ha riconosciuto il suo
padrone e l’asino la greppia del suo Signore>>. E i due animali, avendolo
in mezzo a loro, non smettevano di adorarlo. In questo modo si compì quello che
era stato annunciato per bocca del profeta Abacuc, quando proclamò: <<Ti
farai riconoscere in mezzo ai due animali>>.
I Magi, ovvero dei sacerdoti di
origine persiana, sono ricordati dal Vangelo di Matteo. Nel suo racconto però l’evangelista
non aggiunge alcun dettaglio: nomi, numero, regalità ed altri particolari sono
infatti tramandati dalla tradizione apocrifa, e fu probabilmente il numero dei
doni a suggerire quello dei personaggi offerenti. In conformità a tale
tradizione, i Magi di Arnolfo sono appunto tre, di cui due in piedi, defilati
rispetto alla scena principale, ed uno, il più anziano, inginocchiato davanti
al Bambino, rappresentando così idealmente sia il momento della loro venuta
dall’Oriente sia quello dell’adorazione.
Il presepe di Arnolfo presenta
inoltre due pennacchi con all’interno profeti Davide e Isaia che, attraverso i
versetti biblici alludono e in un certo senso presentano il sacro evento.
Incuriosisce l’assenza degli
originali arnolfiani della Vergine e del Bambino purtroppo perduti: le sculture
di Maria seduta con il Bambino che osserviamo oggi risalgono infatti al XVI
secolo. Proprio questa assenza incuriosisce da anni gli studiosi che hanno
avanzato nel corso del tempo numerose e variegate ipotesi ricostruttive circa l’assetto
originario del gruppo scultoreo.
Dopo i lavori del francescano Niccolò
IV c’è stato un altro papa che ha voluto restaurare la nostra cappellina del
presepe… e come vedremo ha pensato davvero in grande! Durante il pontificato di
Sisto V (1585-1590), la basilica di Santa Maria Maggiore subì una nuova e
prestigiosa campagna di lavori e l’antico oratorio venne “traslato” nella nuova
cappella del SS. Sacramento o Sistina. L’artefice di tali lavori fu
l’architetto Domenico Fontana, il quale descrisse e illustrò le varie fasi di
questa ‘trasportatione’ in un volume di incisioni edito a Roma nel 1590 dal
titolo “Della trasportazione dell’obelisco vaticano e delle due fabbriche di N.
S. Papa Sisto V”.
L’ambizioso progetto di Sisto V fu
tutt’altro che una scelta casuale: in un avviso emanato il 15 luglio 1587 metteva
in luce come già durante i lavori fosse manifesta la volontà del pontefice di
ricreare in Roma la disposizione della basilica della Natività a Betlemme. Il
parallelismo tra i due luoghi era effettivamente plausibile: la collocazione
del Presepe al di sotto del pavimento della cappella sistina (una costruzione a
pianta centrale all’interno della chiesa dedicata alla Vergine) in un certo
senso replicava la situazione di Betlemme, dove la Grotta si trovava al di
sotto della chiesa della Natività, una struttura ottagonale dedicata anch’essa
a Maria.
Oggi infine possiamo ammirare il
presepe di Arnolfo all’interno del museo della basilica esquilina, qui
collocato in seguito al suo recente restauro. Personalmente sono molto
affezionata a quest’opera soprattutto perché ho avuto il piacere di fare uno
stage anni fa a Santa Maria Maggiore e apprezzare da vicino questo piccolo
capolavoro. Ricordo con tanta emozione il momento i cui visitatori e pellegrini
lo ammiravano emozionati e incuriositi condividendo con noi emozioni e
sensazioni.
Per ora vi saluto, vi auguro una
buona giornata e vi aspetto per il prossimo appuntamento in cui approfondiremo ancora
il tema del presepe e racconteremo anche la storia del pastore Benino tanto
caro alla cultura napoletana.